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Welfare aziendale e vincoli di spesa: dal blocco apparente alla reale opportunità per gli enti locali

Negli ultimi anni il welfare aziendale è diventato una delle frontiere più interessanti del lavoro pubblico. Da tema quasi accessorio, confinato per molto tempo al settore privato, si è progressivamente affermato come leva di benessere organizzativo, motivazione e attrattività. Ma per gli enti locali — Province, Comuni e Città metropolitane — la strada è stata tutt’altro che semplice: i vincoli di finanza pubblica e il tetto del trattamento accessorio fissato al 2016 hanno rappresentato un muro difficile da superare.

Con la Legge di bilancio 2025 sembrava che la questione fosse definitivamente chiusa. L’articolo 1, comma 124, ha infatti stabilito che anche le risorse destinate a benefici di natura assistenziale e sociale rientrano nel limite del trattamento accessorio, rendendo di fatto impossibile attivare piani di welfare senza sacrificare altre voci come produttività o progressioni economiche. Per molti enti, ciò ha significato un vero e proprio blocco operativo, relegando il welfare a una dimensione puramente teorica, nonostante la crescente attenzione verso il benessere dei dipendenti.

Eppure, il 2025 ha segnato anche una svolta. Con il D.L. 25/2025, convertito nella legge 69/2025, è arrivato l’articolo 14, comma 1-bis, che ha introdotto la possibilità di incrementare in via stabile il Fondo risorse decentrate oltre il limite del 2016, purché nel rispetto dell’equilibrio di bilancio e dei vincoli di finanza pubblica. In altre parole, un’apertura significativa che restituisce agli enti locali la possibilità di finanziare iniziative di welfare organizzativo in modo strutturale, senza penalizzare le altre componenti del fondo.

Si tratta di una novità di grande rilievo, perché consente di riportare al centro il concetto di “benessere organizzativo” introdotto dal CCNL Funzioni Locali 2019-2021, sottoscritto il 16 novembre 2022. L’articolo 80 e il successivo articolo 82 del contratto indicano chiaramente che il Fondo può finanziare interventi di welfare integrativo rivolti alla generalità o a categorie omogenee di personale: assistenza sanitaria, buoni per servizi educativi, sostegno alla genitorialità, iniziative culturali e sportive, rimborsi scolastici, fino ad anticipazioni e prestiti agevolati. Il welfare, insomma, non come beneficio individuale ma come politica collettiva di benessere, capace di incidere sulla qualità della vita lavorativa e, di conseguenza, sulla qualità dei servizi pubblici.

La sfida, ora, è tutta nella contrattazione decentrata. Spetta ai tavoli locali tradurre queste opportunità in misure concrete, definendo criteri chiari, trasparenti e inclusivi. La stessa logica di accesso al welfare deve essere improntata alla parità di trattamento, evitando logiche di “premialità nascosta” o interventi selettivi. In questo senso, il welfare non sostituisce la produttività, ma la completa, offrendo un orizzonte di motivazione e cura del personale che va oltre la logica economica.

Interessante, poi, è la possibilità di estendere tali strumenti anche a figure che tradizionalmente non rientrano nelle politiche di welfare aziendale: personale ex art. 90 TUEL, elevate qualificazioni e dirigenza. Il CCNL Dirigenza 2024, all’art. 26, riconosce infatti esplicitamente la possibilità di utilizzare il fondo decentrato della dirigenza per interventi di welfare, in linea con i principi generali del TUIR e del d.lgs. 165/2001. Anche i dirigenti, dunque, possono beneficiare di misure sociali e di benessere, confermando l’impostazione inclusiva del nuovo sistema.

Sotto il profilo fiscale, il riferimento rimane l’articolo 51 del TUIR, che disciplina i beni e servizi non imponibili. È questa la base che consente agli enti di costruire piani di welfare efficaci e sostenibili, sfruttando al massimo i vantaggi fiscali e contributivi. Le misure, infatti, non concorrono al reddito imponibile del dipendente nei limiti stabiliti dalla normativa, permettendo di valorizzare il potere d’acquisto e sostenere il reddito reale del personale senza aumentare la spesa corrente.

Un ulteriore elemento di interesse riguarda la possibilità di collegare il welfare al ciclo della performance, purché in modo coerente con i principi di equità e non discriminazione. La Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 55/E del 2020 ha chiarito che i piani welfare possono legittimamente premiare il miglioramento delle performance organizzative o il raggiungimento di obiettivi misurabili, ma non sostituire componenti retributive o legarle a presenze individuali. Ciò apre la strada a modelli innovativi di welfare collettivo, orientati ai risultati e al miglioramento continuo.

In questo scenario, le Province e gli enti locali in genere possono giocare un ruolo di avanguardia. Il welfare, se ben costruito, può diventare strumento di coesione interna, attrazione dei giovani talenti e valorizzazione delle competenze. Nelle amministrazioni che vivono da anni un processo di transizione istituzionale e un progressivo invecchiamento del personale, investire nel benessere organizzativo significa anche investire nella sostenibilità del sistema pubblico.

In definitiva, ciò che fino a ieri sembrava un vincolo insuperabile oggi può trasformarsi in una reale opportunità. La Legge di bilancio 2025, pur introducendo un apparente blocco, ha trovato nel D.L. 25/2025 la sua “chiave di lettura evolutiva”. Il combinato disposto delle due norme, insieme al CCNL del 2022, apre la possibilità di costruire un welfare pubblico finalmente moderno, integrato e sostenibile.

Il punto di svolta non è solo giuridico, ma culturale: riconoscere che il benessere del personale non è una voce di costo, ma un investimento sulla qualità dell’amministrazione. E se le Province sapranno cogliere questa sfida, potranno diventare laboratori di innovazione organizzativa, capaci di dimostrare che anche nel pubblico impiego il welfare non è più un’eccezione, ma una parte essenziale della buona amministrazione.

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